La responsabilità medica è profondamente rivoluzionata da una legge che entrerà in vigore entro marzo, approvata da entrambe le Camere l’11 gennaio 2017.
La nuova legge finalmente i) codifica la responsabilità delle strutture; ii) fortemente deresponsabilizza il personale sanitario che vi opera; iii) impone per tutti elevati obblighi assicurativi; iv) prevede la azione diretta del danneggiato contro l’assicurazione (sul modello RC auto); v) rende più incidente e celere l’iter processuale e conciliativo.
Si vede finalmente normativamente recepita la impostazione, caldeggiata anche in un precedente volume a cura del Prof. Ruffolo oltre dieci anni or sono (“La responsabilità medica”, Giuffrè, 2004) circa la riconsiderazione della responsabilità medica in termini di responsabilità d’impresa (contrattuale ed extracontrattuale) delle strutture, e quindi di costo d’impresa, rendendo secondaria, invece, quella dei singoli operatori sanitari.
Se fino ai primi anni del nuovo millennio la responsabilità azionata era quasi sempre quella del professionista e soprattutto penale, da pochi lustri giudici e prassi si erano convertiti a responsabilizzare anche le strutture sanitarie equiparando - in crescente misura - anche quelle pubbliche alle private, sul piano della diretta responsabilità “contrattuale”, che restava, però, parimenti estesa, altresì, ai sanitari operanti in quelle strutture, oltre che nella libera professione.
Vediamo, per grandi linee, le luci e le ombre di questa vera e propria rivoluzione epocale del settore.
È una responsabilità d’impresa molto elevata: primariamente contrattuale e, comunque, da inadempimento, con rilevanti conseguenze in termini di prescrizione (10 anni) ed oneri della prova. Aspetto, quest’ultimo, di importanza determinante: a fronte della dimostrazione di un danno subito dal paziente quale effetto di attività diagnostica o terapeutica, sarà la struttura a dover dare prova di avere correttamente operato e non, viceversa, il paziente a dover dare la (spesso difficoltosa o impossibile) prova degli elementi costitutivi della responsabilità, quali la colpa.
Tali responsabilità della struttura sono sia dirette che vicarie: coprono comunque “le condotte dolose o colpose” non solo di dipendenti e collaboratori, ma anche di “esercenti la professione sanitaria scelti dal paziente e ancorché non dipendenti”, e persino “le prestazioni sanitarie svolte in regime di libera professione intramuraria” (previsione, quest’ultima, molto innovativa!).
Ad eccezione del rapporto fra paziente e professionista, l’operatore che presti attività nell’ambito di una struttura:
a) Risponde civilmente verso il paziente solo a titolo di responsabilità extracontrattuale (art. 2043 c.c.). E questo significa non solo minore termine di prescrizione (5 anni), ma anche maggiori oneri probatori: è il paziente a dover provare la colpa sanitaria (prova spesso difficile).
b) Vede limitata l’azione di rivalsa al solo dolo o colpa grave. Dunque, l’ente risponde per colpa lieve verso il paziente leso, ma riesce a rivalersi nei confronti dell’operatore sanitario responsabile solo ove a questi sia imputabile colpa grave o dolo.
Tale azione di rivalsa incontra ulteriori limiti: può essere esercitata solo successivamente al “risarcimento avvenuto”, ed “è esercitata, a pena di decadenza, entro un anno dall’avvenuto pagamento”.
c) Al dolo o colpa grave è limitata, altresì, la azione di responsabilità amministrativa (quella per il cd. danno erariale).
d) Quanto alla responsabilità penale dell’operatore sanitario, mentre è abrogata la norma prevista dal “decreto Balduzzi” in materia di limitazioni di responsabilità alla sola colpa grave, è prevista la non punibilità per lesioni o omicidio colposi imputabili ad imperizia (ma non invece a disattenzione, o altre forme di colpa), “quando sono rispettare le raccomandazioni previste dalle linee guida”.
Molto vincolanti, anche ai fini delle limitazioni di responsabilità dei sanitari, diventano le linee guida “pubblicate” e raccolte dall’Osservatorio nazionale delle buone pratiche sulla sicurezza nella sanità, da istituirsi con decreto ministeriale presso l’AGENAS (Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali).
Molto positiva appare la responsabilizzazione delle imprese sanitarie e, per converso, la severa riduzione di responsabilità dei singoli operatori, spesso esclusa o limitata alla sola colpa grave. Tanto significa, al tempo stesso, copertura risarcitoria per il paziente leso e minor responsabilizzazione dei singoli operatori, che vedono così meno limitata la propria serenità di giudizio (si pensi a quanto sono limitate le responsabilità dei magistrati, al fine di non turbarne la serenità di giudizio). Diminuirà la “medicina difensiva”? Poco, perché continueranno a praticarla le strutture…
Le ombre, sul punto, emergono anche dal collegamento fra deresponsabilizzazione e applicazione delle “linee guida”. Intanto, restano fuori i settori di nicchia, d’avanguardia e di medicina innovativa (le evoluzioni sono rapidissime, in taluni settori), rispetto ai quali le linee guida mancano o sono arretrate. I meccanismi di redazione, approvazione e pubblicazione delle “raccomandazioni” e “linee guida” sono molto più lenti del progresso tecnico. Si rischia di ancorare alla pratica di tecniche gessate enti ed operatori che vogliono “stare sul sicuro”. Sarà medicina difensiva anche questa?
Il problema, per i sanitari interni ad un ente, oltre che quello di cui sopra, è, altresì, quello del come comportarsi quando il loro ente attui malamente le linee guida. In entrambi i casi, la soluzione è “disobbedire”, o contestare?
Altra questione è quella dei liberi professionisti, ben più responsabilizzati (rispondono direttamente e contrattualmente verso il paziente) dei sanitari interni ad una struttura. Qualche volta, anche discriminati per ingiustificata differenziazione di regimi: ad esempio, rispetto ai colleghi che esercitano la professione “intramuraria”.
Quanto ai liberi professionisti, va poi osservato che i medesimi molto spesso operano all’interno di una microstruttura autogestita: ad esempio, un proprio ambulatorio sotto forma societaria. In tal caso, a seconda di come si struttura il rapporto contrattuale con i pazienti, le responsabilità maggiori si riversano su tale società. La quale allora dovrebbe avere capitale sociale adeguato (basta poco, invece, per costruire una s.r.l., ad esempio) e, comunque, dovrà avere adeguata copertura assicurativa. E questo, in concreto, può significare, per il libero professionista, duplicare i costi assicurativi.
Quanto agli obblighi assicurativi ed al ruolo delle assicurazioni, se i primi sono benvenuti, l’impatto del loro costo, se non calmierato, potrebbe sia essere dissuadente o proibitivo per le seconde (ad esempio, per settori d’avanguardia), sia inutilmente antieconomico e costrittivo per le grandi unità del servizio nazionale, che hanno dimensione e mezzi idonei a praticare forme di “autoassicurazione”, provvedendo direttamente a gestire le erogazioni risarcitorie.
Sul fronte del ruolo crescente delle assicurazioni nella responsabilità medica, accanto ai vantaggi della copertura assicurativa obbligatoria e della azione diretta c’è quello della gestione con logica “assicurativa” di contenziosi, qualche volta in contrasto con quanto un ente sanitario corretto vorrebbe fare, ad esempio in materia di soluzioni transattive rapide ed adeguate.
Altro aspetto non positivo è dato dalla previsione, nella nuova legge, di una quantificazione del danno da responsabilità medica, ancorata ora alle “tabelle” previste dal codice delle assicurazioni private, meno adeguate di quelle del Tribunale di Milano, finora applicate dalla giurisprudenza dominante.